Ci siamo. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza che dovrà essere pronto per aprile ha già molti contenuti interessanti, ora da meglio definire e dettagliare affinché risultino, i progetti conseguenti, “concretamente perseguibili ed oggettivamente sostenibili”. Siamo consapevoli che la parola d’ordine debba essere trasparenza: su tempistica, costi, impatti e ricadute attese sul sistema paese e sul PIL in particolare. L’Europa anzitutto ce lo impone. Ed allora credo che ciascuno di noi per le proprie possibilità sia chiamato responsabilmente a dare un suo contributo di scienza e/o esperienza, contributo che mi appresto ad esporre.

Sono molto interessata e colpita dalla dichiarata necessità di porre l’equilibrio di genere come trasversale priorità di tutte e cinque le missioni che il Piano si propone di perseguire.

Si tratta del necessario segno forte e deciso che ha difettato in altre occasioni.

Tuttavia non posso fare a meno di ricordare l’esperienza fatta nella mia regione, la Liguria, una diecina di anni fa, quando un’assessora illuminata riuscì a far prendere una decisione di questo tenore.

Più che un assessorato alle PO, peraltro operativo, si riteneva necessaria una trasversalità dell’approccio in tutti gli altri assessorati ed altrettanta trasversalità in tutti i progetti che venissero gestiti o finanziati a livello locale.

Ottima risoluzione ci dicemmo che tuttavia ebbe come risultati concreti la presenza, spesso della Consigliera di parità, in tutti i tavoli operativi e di controllo, ma oggettivamente con scarse possibilità di incidere sulle decisioni che in tali tavoli si prendevano.

Quanto ai progetti non mancava un capitoletto sulle PO nei report di impostazione e conclusione, spesso riprodotto e scopiazzato dagli estensori degli stessi. Di fatto e nei numeri risultati deludenti nonostante le buone intenzioni. 

Anche l’esperienza dei bilanci di genere dovrebbe suggerirci qualcosa.

Chi scrive li ha visti nascere e molto ha confidato sugli esiti che ci si proponeva di raggiungere. Volevamo incide sulle voci di bilancio, conoscerne nel profondo gli impatti, per renderle più attente alle esigenze di vita e di lavoro delle donne.

Oggi sono diventati troppo spesso un semplice esercizio statistico di raccolta dati disaggregati per genere che può tuttalpiù contenere qualche proposta operativa senza vincoli attuativi. Nulla ahimè di quello che volevamo e avremmo potuto ottenere.

Ecco perché è oggi quanto mai necessario stabilire ex ante le modalità di realizzazione del piano con un puntuale dettaglio dei supporti tecnici di indirizzo e verifica che andranno ricontrollati e validati nelle varie fasi progettuali.

Credo che anche su questo punto tutti coloro che sono in grado di farlo dovrebbero essere e sentirsi responsabilmente coinvolti, perché questa è una partita senza ritorno che ha solo un esito accettabile: la vittoria.

Sono già un po’ pentita della frase precedente e vorrei imporre a me stessa di volare più basso, un po’ come mi e capitato quando ho ascoltato il neo Presidente del Consiglio citare il superamento dei differenziali salariali e retributivi nel suo discorso di investitura.

Chi mi conosce sa che l’argomento è uno dei miei preferiti e comprenderà dunque la mia soddisfazione.

Ma occorre fare nuovamente i conti con l’attuazione concreta di un buon proposito nei confronti di quello che oggettivamente costituisce un vero e proprio freno sociale, uno dei motivi più cogenti alla base della scarsa partecipazione delle donne italiane al mercato del lavoro.

Il problema tuttavia riguarda il come interveniamo. Una strada potrebbe essere il coinvolgimento delle parti sociali per raggiungere accordi sul punto. Non mi sembra, dati i tempi, facile e veloce da percorrere.

Dubito che si riesca a trovare intese e convergenze su un tema che necessariamente penalizza qualche attore, e non certo quello più debole contrattualmente.

Allora si dovrà continuare con gli strumenti di incentivazione delle aziende virtuose, con i bollini rosa e le medagliette a perdere?

Preferirei piuttosto un’inversione di rotta che controlli, individui e penalizzi i contesti non virtuosi, per esempio escludendone l’accesso a benefit o a percorsi privilegiati, che pubblicizzi peccati non certo veniali e ne chieda concreta ammenda.

In attività di questo tipo potrebbero essere coinvolti organismi di garanzia come le Consigliere di parità che da troppo tempo sono stati lasciati languire in un limbo nel quale manca totalmente l’indispensabile supporto finanziario.

La legge prevedeva la raccolta dei rapporti biennali redatti dalle imprese con più di 500 addetti. Modificando opportunamente quei rapporti si potrebbe disporre delle informazioni necessarie per intervenire e, rammentiamolo, alle Consigliere è consentito anche il ricorso al giudice quando necessario.

Per l’esperienza che personalmente ho maturato, un po’ di autorevolezza e questa tanto concreta quanto deterrente possibilità portano sovente a più miti propositi le aziende non virtuose. Potenziando l’istituzione le si darebbe nuovo impulso e non mancherebbero i risultati.

Dobbiamo essere consapevoli che operiamo un un sistema nel quale vali soltanto se costi, sei retribuito e disponi di un reddito; tutto viene misurato in termini di PIL.

Per questo nella contrattazione quotidiana su chi fa che cosa le donne oggi sono costrette sovente a rinunciare al lavoro, perché quella rinuncia è la meno onerosa a livello di bilancio familiare. E la cura resta ad appannaggio delle donne che la sanno fare così bene!

E la cura non rientra minimamente nel PIL perché appunto non costa nulla, apparentemente. Non a caso le economiste femministe americane propongono e attuano l’esternalizzazione delle attività di cura, che oltre a palesarne il valore monetario crea posti di lavoro.

Per contro pochi in Italia si curano dell’enorme spreco di risorse che un sistema certo non florido sta facendo nel non sfruttare concretamente, o meglio non mettere all’incasso, tutti quegli investimenti che lo stesso sistema fa sull’istruzione delle donne, per non parlare del concreto impegno su questo versante delle dirette interessate e delle loro famiglie.

Messe insieme le due constatazioni di cui sopra credo che una soluzione potrebbe essere riprendere una proposta che Alesina e Ichino fecero una diecina di anni fa: la detassazione del lavoro delle donne.

Dunque non la decontribuzione attualmente praticata al sud, che aiuta essenzialmente le imprese, ma una misura che agevola quella che obiettivamente, e spiace doverlo riconoscere, è ancora la componente debole del sistema. E coinvolge tutte le categorie di lavoratori, sia i dipendenti sia gli autonomi e le libere professioni.

A suo tempo i due economisti dimostrarono, dati alla mano, che l’operazione poteva avere costo zero per lo Stato se si fosse aumentata di un punto la tassazione del lavoro maschile.

Oggi con le disponibilità finanziarie attese si potrebbe fare a meno di penalizzare gli altri lavoratori e si otterrebbe un duplice risultato. Incentivare la partecipazione duratura delle donne al mercato del lavoro e palesare in termini finanziari il valore della cura, dunque esaltarne l’intrinseco peso su tutto il sistema.

Molti sono gli avvenimenti recenti che ci hanno mostrato come i fattori della produzione si deprimano se manca la cura: crollano i ponti, si disgregano i territori e falliscono le banche.

Forse è giunto il momento di mettere la cura al centro e imparare dalle donne come si fa, valorizzarle per quello che meritano, recuperare la visione di lungo periodo che non manca in chi genera ed è naturalmente attento a che il generato abbia lunga vita.

Con minore interesse, anzi con una punta di irritazione ho invece ascoltato lo stesso Draghi riferirsi alle “Quote” come un qualcosa di superato e da ipotecare.

Tutte coloro che hanno lavorato sul tema della parità hanno per principio aborrito il ricorso alle quote ma sono state costrette a rivedere la loro idea dalla constatazione che era l’unico modo per far entrare le donne nei piani alti del sistema produttivo e politico.

Grazie alle quote in pochi anni il Paese ha conquistato punti e posizioni in tutti gli indicatori di performance che consentono comparazioni tra Paesi a partire dall’EIGE. Non mi sembra tuttavia che il loro compito sia da considerarsi concluso.

Dunque restino anche le quote così come tutte quelle misure a sostegno delle famiglie come l’aumento del numero degli asili nido, dei centri diurni per anziani, dei congedi parentali in particolare per i maschi. Saremo tutte felici se e quando se ne potrà fare a meno.

Ricordo con un sorriso quando le colleghe giuslavoriste mi dicevano che passare dalla conciliazione alla condivisione della cura non era concettualmente possibile.

Mi sembra che oggi i tempi siano maturati e le disponibilità finanziare contingenti consentano un mix di interventi altrimenti troppo oneroso per il sistema paese. Anche per incentivi pensionistici rivolti alle madri si potrebbe aprire qualche spazio.

L’importante è imparare a stare insieme, a supportarci vicendevolmente, a creare alleanze con i maschi ma anche tra donne, talvolta restie a concedersi e supportare le altre, per riuscire insieme ad uscire da una crisi che ci mette alla prova ma potrebbe anche rivelarsi positiva e feconda per un cambiamento, vero.

Valeria Maione

Economista e Vicepresidente Associazione CREIS

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