Le norme vanno fatte vivere affinché possano tutelare correttamente i diritti e verificare l’assolvimento di doveri. Nei luoghi istituzionali far vivere le norme è dovere, è responsabilità, è impegno per un condiviso riconoscimento dell’Altro. Le regole possono essere ridiscusse, rinegoziate, modificate o sostituite ma soprattutto vanno fatte vivere. Le norme antidiscriminatorie di genere ed in particolare quelle relative alla retribuzione vivono una condizione di “torpore”; si avverte una “inattività applicativa”, a fronte, invece, di una percezione di insicurezza di diritti e di garanzie sulle pari opportunità, resa ancora più forte e stridente nel periodo di ripartenza economica che stiamo vivendo. I dati disponibili, le indagini effettuate mostrano che le donne sono state colpite enormemente dalla pandemia di Covid-19. Le donne si sono fatte carico di una quota enorme di impegno e responsabilità per l’assistenza e la cura a seguito della chiusura delle scuole e dei servizi di sostegno, accrescendo le disparità nelle condizioni economiche ed allontanandosi dalla parità retributiva. E allora accanto al “torpore” le cui motivazioni sono strettamente legate agli aspetti culturali e storici, ormai noti, si assiste ad un arretramento sui diritti e le garanzie delle donne causato dall’emergenza sanitaria. Il “Rapporto annuale delle attività di tutela e vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale 2020” dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, con riguardo alle “Lavoratrici coinvolte in violazioni di pari opportunità”, registra 309 interventi per i quali sono stati adottati provvedimenti amministrativi e sanzionatori volti ad assicurare la tutela, fisica ed economica di “gestanti e lavoratrici madri” e di “pari opportunità tra uomini e donne in materia di lavoro”. Sull’intero territorio nazionale, quindi, solo 309 lavoratrici hanno avuto tutela antidiscriminatoria, rappresentando lo 0,50% del numero complessivo di lavoratori tutelati (n. 62.135). I dati considerati, tuttavia, si riferiscono a fattispecie differenti di violazioni normative che attengono sia alla tutela della maternità sia alle discriminazioni di genere nei luoghi di lavoro. Purtroppo, non è conosciuta la ripartizione tra le fattispecie normative violate, utile, invece, per poter comprendere ed individuare i fenomeni di discriminazione correlati. Nel Rapporto 2019, viene rilevata la stessa percentuale dello 0,50% con 466 lavoratrici su 93.482 lavoratori tutelati; in particolare n. 2 lavoratrici sono state coinvolte in violazioni di discriminazioni di genere nei luoghi di lavoro. La dimensione numerica riportata potrebbe far pensare ad un fenomeno non “rilevante” ed essere parametro selettivo per l’agire istituzionale. La esigua dimensione numerica, però, non può dissolvere preoccupazione ed impegno poiché probabilmente “racconta” le difficoltà e complessità associate alla concreta emersione di discriminazioni di genere nei luoghi di lavoro. È necessario fare attenzione al pregiudizio cognitivo che la “legge dei piccoli numeri” spiega come causa della tendenza delle persone a credere che un numero relativamente piccolo di osservazioni possa riflettere in maniera molto simile l’insieme dei dati generali. Si tratta di una “scorciatoia mentale” che viene richiamata quando si devono prendere decisioni in condizioni d’incertezza, arrivando a conclusioni sulla base di campioni statistici che non sono rappresentativi dell’universo e confondendo una piccola porzione di un fenomeno con il tutto. Nel caso delle discriminazioni, una sola donna lavoratrice tutelata, nel periodo di maternità, per esempio, condizione in cui è più alto il rischio di fragilità, produce effetti diretti e indiretti positivi sul benessere individuale, famigliare, sociale ed economico. Tra le violazioni associate alla tutela della maternità contestate dal personale dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, sono rilevate la mancata o ridotta corresponsione delle indennità di maternità. All’art. 25 del d.lgs. 198/2006, comma 2-bis si prevede che costituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti”. La previsione normativa italiana nasce in attuazione della Direttiva europea nella quale viene sancito che “qualsiasi trattamento sfavorevole nei confronti della donna in relazione alla gravidanza o alla maternità costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso”. La normativa comunitaria, in particolare l’art. 119 del Trattato di Roma (ora articolo 157 del TFUE) dispone che «Ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della parità della retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore». Dal secondo comma di tale disposizione emerge peraltro che il concetto di retribuzione include non solo lo stipendio normale di base, ma tutti i vantaggi pagati direttamente o indirettamente dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo, quindi anche gli aumenti retributivi, gli incrementi per anzianità, le indennità mensili integrative dello stipendio, i fringe benefits e i premi”. L’esclusione o la diminuzione dei diritti della lavoratrice che si trovi in stato di gravidanza o in relazione alla maternità rappresenta, in sé, una discriminazione, senza necessità di effettuare alcun giudizio relazionale poiché la piena fruizione dei diritti stessi è considerata strumento essenziale per garantire una sostanziale parità di trattamento. Nel corso del periodo in cui la lavoratrice gode del diritto all’astensione dal lavoro per maternità, la stessa ha diritto a percepire, con oneri a carico del sistema previdenziale, una indennità tale da mantenere quanto più possibile il livello retributivo precedente al congedo, al fine di garantirle un tenore di vita analogo. Il legislatore ha stabilito che il livello di garanzia debba essere individuato nella misura dell’80% della retribuzione del mese antecedente all’astensione dal lavoro. Appare evidente che la mancata corresponsione dell’indennità di maternità o la riduzione delle somme corrisposte alla lavoratrice durante il periodo di congedo per maternità al di sotto del limite previsto dalla legge, rappresenta un trattamento meno favorevole connesso oggettivamente all’esercizio del diritto di astensione dal lavoro per maternità e, dunque, una discriminazione. L’illegittima decurtazione o mancata corresponsione dell’indennità finisce per causare alla madre lavoratrice, che deve astenersi dal lavoro per un lungo periodo di tempo per gravidanza e puerperio, una riduzione del tenore di vita, analogo a quello goduto in precedenza, potenzialmente compromettendo non solo lo svolgimento delle funzioni familiari e genitoriali per l’adempimento dell’essenziale funzione familiare nonché assicurare alla madre ed al bambino una speciale adeguata protezione, art. 37 della Costituzione. Ai datori che non corrispondono, in tutto o in parte, le indennità richiamate e gli assegni familiari, l’ispettore del lavoro contesta le violazioni di cui all’art. 43 del d. lgs. 151/2001 – “l’indennità è anticipata dal datore di lavoro ed è portata a conguaglio con gli apporti contributivi dovuti all’ente assicuratore -; gli stessi datori di lavoro, tuttavia, trasgredendo al pagamento parziale o totale di tali indennità, oltre a violare le suddette norme pongono in essere comportamenti discriminatori sul livello retributivo, ovvero operano una discriminazione salariale che rappresenta una violazione della norma dell’art. 28, d.lgs. 198/2006, a cui corrisponde una sanzione amministrativa da 5.000 a 10.000 euro, in base all’art. 1, commi 1, 2 e 5, lettera a), del d.lgs. n. 8/2016. È tempo di far emergere le discriminazioni retributive che nelle fattispecie della mancata o ridotta corresponsione dell’indennità di maternità connotano una discriminazione diretta per motivi di genere, per la quale non sono noti i dati relativi alle contestazioni effettuate dagli Organi di controllo. Dai dati pubblicati dall’INL, infatti, non emergono evidenze quantitative correlate alle violazioni di discriminazione retributiva. Potrebbe essere, contrariamente, un indicatore importante per la cosiddetta “Certificazione di parità” contenuta nel disegno di legge sulla parità salariale, approvato all’unanimità dalla Camera dei deputati il 12 ottobre 2021, che si propone di garantire l’effettiva parità retributiva tra donne e uomini per un lavoro di pari valore. Essa sarà concessa alle aziende che rispettano i parametri ed adottano specifiche politiche di pari opportunità al fine di concedere benefici e sgravi contributivi fino a 50mila euro e vantaggi nei meccanismi di gara per le aziende che ottengono la certificazione. La nuova proposta di legge, tesa a far vivere il principio di parità e pari opportunità e rendere effettiva la parità salariale, inoltre, modificherà il codice delle Pari opportunità, in particolare, riguarderà: il Rapporto sulla situazione del personale, rendendolo obbligatorio per le aziende sopra i 50 dipendenti (e volontario per le altre) con i dati sui salari, il reclutamento, le posizioni e le opportunità di carriera; si introduce il Principio di trasparenza, in base al quale il rapporto sarà consultabile da dipendenti, sindacati, Consigliere di parità, Ispettori del lavoro, Cnel, Ministero; sono previste sanzioni: da 1000 a 5000 euro per rapporto falso o incompleto e revoca degli sgravi contributivi per chi non lo presenta; per le Consigliere di parità verrà rafforzato il ruolo con l’accesso diretto ai dati e la presentazione di un rapporto biennale al Parlamento. Nel citato Rapporto 2020 INL, per la prima volta viene inserita una sezione dedicata alla “Dimensione di genere dei dati di vigilanza” che finalmente consente di “intravedere” aspetti prima non monitorati statisticamente. Sulla base delle valutazioni contenute in questa sezione, se pur solo in termini percentuali (al riguardo, sarebbe d’interesse acquisire i relativi valori assoluti), si rileva che negli anni 2019/2020, il fenomeno associato alla “riqualificazione” del rapporto di lavoro, vede coinvolti gli uomini in misura pari al 54%. La distribuzione territoriale, tuttavia, fa emergere una maggiore frequenza femminile nelle aree del Nord Ovest e del Nord Est, rispettivamente con il 56% e 54%. La “riqualificazione del rapporto di lavoro” è associata al fenomeno del corretto inquadramento contrattuale che il personale ispettivo INL avendone accertato il distorto utilizzo di fattispecie contrattuali atipiche e flessibili, provvede a riqualificare, assicurando ai lavoratori i diritti e le tutele derivanti.

Anna Frasca
Funzionaria statistica presso Ispettorato Territoriale del Lavoro di Bari
esperta in statistiche di genere dell’Associazione CREIS

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